Moda circolare: un’opportunità per il futuro
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Chi ben comincia è a metà dell’opera. Con questa filosofia dovrebbe essere improntata la produzione delle collezioni che vediamo susseguirsi nei negozi e sulle passerelle delle settimane della moda. Ripartire dalla concezione che ogni capo di abbigliamento deve essere pensato in base a cosa ne sarà una volta che uscirà dagli armadi dei suoi possessori per far spazio ad altri. Perché la moda, soprattutto per la piega che ha preso oggi, inquina e non poco.
Per l’esattezza, affidandoci ad una ricerca uscita su Nature Reviews Earth and Environment, ogni anno per la produzione tessile sono consumati 1500 miliardi di litri di acqua e prodotti circa 92 milioni di tonnellate di rifiuti provenienti da capi d’abbigliamento, mentre il 20% dell’inquinamento idrico industriale è causato dalla lavorazione e tintura dei tessuti ed il 35% delle microplastiche negli oceani deriva da lavaggi di abiti con fibre sintetiche. E tutto questo senza considerare le emissioni causate dal comparto dei trasporti impiegati nel processo di distribuzione. Appare chiaro che anche la moda debba essere interpretata alla luce dei processi dell’economia circolare, ossia riprodursi senza consumare le risorse del nostro pianeta.
Cos’è la moda circolare
La moda circolare si basa sul concetto dell’economia circolare, vale a dire riciclare e rigenerare il vecchio per farne qualcosa di nuovo. Un sistema circolare tiene conto dell’impatto ambientale e sociale, punta sulla scelta di materiali e di prodotti che un domani potranno essere riciclati e rigenerati per ritornare in commercio, in un loop continuo fino al loro completo esaurimento. La moda circolare è anche sostenibile ed etica, preoccupandosi della valorizzazione dei lavoratori e dei territori in cui opera.
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Il declino del settore può essere circoscritto all’avvento del Fast Fashion, riassumibile in catene di negozi che producono ogni anno milioni di capi di bassa qualità e basso costo, indossati in media 8 volte dagli acquirenti prima di essere buttati, sfruttando le risorse e la manodopera di Paesi in via di sviluppo. Un sistema che non regge più le logiche del gioco necessita un’inversione di rotta. Alcune grandi catene lo hanno capito, come Zara e H&M, anche se spesso accusate di greenwashing. Per altre la luce fuori dal tunnel sembra ancora lontana. Lo scopo finale sarebbe arrivare allo Slow Fashion, una produzione che punta sulla longevità del capo di abbigliamento o dell’accessorio e sulla qualità dello stesso.
Riciclo dei tessuti
Partiamo da una distinzione. I capi di abbigliamento sono prodotti o con materiali naturali o con materiali sintetici.
I materiali naturali hanno origine animale o vegetale e possono essere reintrodotti nella biosfera. Tra questi troviamo lana, seta, lino, cashmere, cotone, juta, paglia, caucciù.
I materiali sintetici sono solitamente sottoprodotti dell’industria petrolifera e tra questi troviamo poliestere, nylon, elastan, acrilico, neoprene. In questa categoria vi sono però anche le fibre sintetiche ecologiche, ossia prodotte attraverso il riciclo di alcuni materiali, tra cui reti di pesca, bottiglie di plastica e scarti industriali.
Il tessuto più utilizzato nel mondo della moda è il poliestere, una fibra che impiega fino a 2000 anni per decomporsi ed è frutto di una creazione “chimica”. Il secondo è il cotone, fibra senza dubbio migliore ma non esente da problemi, in particolar modo quelli che riguardano lo sfruttamento della manodopera.
A parità di costi, per le aziende pesa economicamente meno produrre capi d’abbigliamento sintetici, mentre per quanto riguarda le fibre naturali è più conveniente creare vestiti ex novo piuttosto che riciclati. Questo perché spesso la composizione mixata nei tessuti, come ad esempio 70% cotone e 30% poliestere, non rende facile il riciclo delle fibre naturali; pertanto, un abito di cotone ottenuto dal riciclo di un capo del genere costerà di più, dovendo abbattere i costi di lavorazione. Torniamo così al concetto iniziale “Chi ben comincia è a metà dell’opera”, secondo cui è importante innanzitutto prediligere l’uso di tessuti naturali o la massimo sintetici ecologici, e non mescolarli tra di loro per assicurare un miglior riciclo del capo, piuttosto che farlo ardere in un inceneritore.
Rigenerare, noleggiare e rivendere
Abbiamo visto come attraverso il riciclo si possano recuperare i materiali di scarto per trasformarli in qualcos’altro. Ma non è l’unica maniera per rendere la moda circolare.
Da qualche anno spopola il concetto di upcycling, la tendenza a rigenerare capi dismessi, invenduti o danneggiati, facendoli tornare a nuova vita. In questo caso il capo non viene distrutto per recuperarne una nuova parte, ma viene totalmente rivisto. La creatività e l’ingegno sono la chiave per poter ridisegnare una giacca partendo da una jeans ed un maglione.
Anche le pratiche di noleggio stanno ormai spopolando. Il consumatore è stanco di prodotti di bassa qualità, ma al contempo è bramoso di variare il suo armadio e sfoggiare continuamente outfit diversi, giorno dopo giorno, con la consapevolezza che i vestiti che acquisterà verranno presto dimenticati nei meandri di chissà quale cassetto. Per questo il sistema del noleggio ha preso piede in maniera consistente, permettendo di poter indossare per qualche giorno capi e accessori di qualità. L’utilizzo dell’abito o dell’accessorio è notevolmente amplificato. Infine, l’acquisto di abiti di seconda mano. Ormai è un’azione piuttosto sdoganata e tra negozio ed app specializzate, le occasioni di comprare vestiti non più apprezzati da qualcun altro sono all’ordine del giorno. I prezzi sono molto convenienti, i vestiti non vengono buttati evitando l’innescarsi di conseguenze che si ripercuotono sul pianeta. Forse, fra tutte, l’azione che più si avvicina e aiuta a sostenere il sistema della moda circolare.